INTERVISTE E CONFRONTI: Roberto Vetrugno, linguista e scrittore



SpazioPPP: Ciao Roberto, ci descriveresti il tuo campo di indagine e di ricerca?

Roberto Vetrugno: Ciao SpazioPPP. Sì, ma devo chiarire subito che è un campo confuso, poco chiaro perché è molteplice: sono uno storico della lingua italiana e un filologo, questo è il mio settore disciplinare (molto disciplinato e polveroso) in cui è incardinata istituzionalmente la mia conoscenza. Si tratta delle discipline più noiose tra gli studi umanistici!, in particolare sono uno specialistica della lingua del Rinascimento, non di quella aulica della letteratura, no, ma di quella di tutti giorni, delle lettere che scrivevano gli uomini e le donne del Rinascimento (esce in questi giorni un mio libro mattone per Franco Angeli: “Prègola la non me voglia dementhicare”. Studi linguistici sulle lettere di donne del Rinascimento). Ed è una scrittura confusa eppure leggera, non c’è una norma, è fluida, piena di variazioni, una grammatica inclusiva. Forse è il vero italiano, quello di tutti i giorni, doloroso, errante, gioioso, pieno di incertezze ma soprattutto una lingua viva, che erra. In questo senso confusa, viva. La norma è rassicurante, sempre, ma le arti (pittura, poesia, narrativa, teatro etc.) la trasgrediscono sempre, anche grazie agli errori, che forzano l’ordine costituito e sono opportunità di conoscenza.

Così studiando la lingua e la grammatica ho compreso l’importanza di sovvertirle: mi sono formato a Pavia, con Angelo Stella, che è succeduto a Maria Corti sulla cattedra di Storia della lingua italiana dell’Università di Pavia, oggi di Giuseppe Antonelli. Maria Corti è stata una esperta di storia della lingua ma soprattutto di “felicità mentale”, cioè viaggiare ed errare tra la ricerca e la creazione propria e altrui, e gioirne. Maria Corti ha scritto romanzi e saggi meravigliosi, L’ora di tutti, Il canto delle sirene e molti altri (a Otranto ogni estate c’è un festival a lei dedicato, ed è discreto e profondo, come lei). Studiare la lingua nei suoi dispositivi reconditi permette di capirla e di usarla meglio, soprattutto creativamente: per questo ho scelto un itinerario che dalla scienza esatta della parola mi ha portato alla parola libera, inventata, della scrittura, in prosa, in versi, in parte saggistica, in parte critica. Parola dipinta, parola sbagliata, parola viva e migrante. 
Questa dispersione, questa distrazione (sono un distratto cronico!), questo viaggio sfocato mi portano alla conoscenza in forma di confusione, errori possibili, necessari all’uomo per creare e non solo imitare. 
Da bambino, semiragazzino, sono stato molto attratto dall’arte, l’ho sempre vissuta come qualcosa di molto affine alla scrittura creativa. La mia prima mostra fu una personale di Mirò, a Torino. Quel genio pasticcione bambino è stato per me illuminante. In quel periodo ho scritto la mia prima poesia.


SPPP: Nel tuo romanzo “Umiliati” si citano spesso Opere di artisti come De Marco, Consiglio, Samorì e Cremonini indice delle presenza nella tua vita di artisti e pensatori, ci parleresti di questi incontri e di come abbiano influenzato la tua ricerca/la tua vita?

RV: I personaggi di Umiliati sono devastati e disordinati ma l’arte irrompe per un attimo e gli indica una via di fuga. Sono intrappolati in una concezione passata dell’amore e di loro stessi.

Evoco Mario Consiglio, artista da sempre eversivo, che contamina scrittura e immagine; Flavio De Marco, impegnato in una ricerca di un passaggio che gli schermi hanno annientato; Samorì, l’oscurità del suo sguardo atroce; e Cremonini, artista poco conosciuto che dovrebbe essere valorizzato molto di più; ma non è nel canone, non è pop e non è nella macchina del mercato supremo, quello che propina i pochi soliti pittori da presentare in mostre spot mangiasoldi e raffazzonate. 
Lui dipinge stralci di uomini e spiagge piatte della Romagna, ma potrebbe essere un qualsiasi luogo del dolore umano.
Ho avuto la fortuna di essere amico di artiste e artisti che lottano per l’arte, che credono in essa come forma di conoscenza e di liberazione. Rapporti umani, solidali, di dialogo creativo. Devo dire assolutamente che per la mia piccola esperienza sento una grandissima forza espressiva nuova e rivoluzionaria nelle artiste: la creatività femminile finalmente si è sprigionata dopo millenni di repressione e ora ha una energia che trasforma il mondo maschio dell’arte e del suo mercato. 
Non voglio chiudermi nei sistemi, sociali, culturali, intellettuali: chi si dedica alla conoscenza e all’arte (sono la stessa cosa!) oggi rischia questo, di sigillarsi nella sua forza specialistica; ma così il sapere diventa un circolo e un salotto, un settore tecnocratico. Esclude e non include, quindi così non ha senso. Senza uscire mai, senza rischiare, senza guardare oltre. 
Ho cercato di guardare altrove, oltre il mio naso a patata di grammatico e ho sentito la pittura come un linguaggio poetico e visivo. Gli antichi e gli uomini del Rinascimento amavano congiungere le arti, la poesia raccontava le immagini (ecfrasi), si ascoltava e si leggeva osservando simultaneamente. Sinestesie: potrei dipingere come scrivo, tutti possiamo farlo, tutti dovremmo fomentare la nostra creatività. Qualche giorno fa avrei potuto dipingere una scena e la sua disperazione, la disperazione è una forma di lotta in una società che confeziona felicità artificiali. Ho usato questa parola immagine:

 

Io ascolto solo i disperati 
i perdenti quelli senza denti 
senza successo senza potere 
senza dentiere senza prodezze
i deboli senza meriti
senza talenti portenti.
Solo, solo noi un po’ così, qui su questo bancone 
non possiamo saldare, possiamo solo salvare il mondo
perdendo il tempo, ridendo del naufragare,
senza pagare. Senza scappare.


Ecco per me questo è un quadretto, un mottetto, un movimento questa volta in forma di parola ma potrebbero essere pennellate o note che rappresentano un bancone e la forza eversiva del dolore.
La creatività è di tutti e in tutto, e possiamo svelarla nelle persone e nelle parole. Pensaci, le persone che per “hobby” si dedicano a un’arte sono persone più ricche, più profonde anche più gioiose e serene perché vivono l’esperienza di un’altra dimensione, magica: fare arte (non conta il livello, il valore e l’apprezzamento, l’importante è sentire). 

 

SPPP: Questo incontro tra le arti credi possa essere una maniera per contrastare il loro isolamento e mercificazione (editoriale e del collezionismo)?

RV: In questo contesto sociale invece la creatività è vista come qualcosa di bislacco, che non produce e quindi non sono “lavori” rispettabili; pensate al ruolo che in Italia ha l’artista, o il poeta: sono visti come ridicoli, persone con la testa tra le nuvole (pensate alla parola artistoide) invece hanno nuvole incantevoli nella testa, vento, fulmini, raggi di sole grandine. Insieme agli insegnanti, gli artisti (tutti: poeti scrittori pittori musicisti, ma non i giornalisti…) sono la radice più profonda di una comunità. Sono ridicoli e questo li rende eccezionali, non c’è cosa più umana e preziosa di essere ridicoli.
Oggi il sistema del mercato e del capitalismo demenziale porta a separarci e a produrre, anche arte, da soli. Tende a isolare l’artista, a renderlo produttore di prodotti di consumo. Con ritmi e show. 
Le artiste e gli artisti che sento vicini a me hanno invece tutti un approccio rigoroso all’arte, non spettacolare né commerciale. Abbiamo bisogno di arte contemporanea e di artisti, di comunità di artisti, di creatività diffusa. Non di mercato drogato dell’arte e dell’artista usa e getta. La posizione a margine, come suggerisce Bel Hooks è quella politicamente più significativa, più incisiva perché non è logorata dalla centralità delle egemonie economiche. Al centro ci sono i soldi e il potere, al margine la libertà e la solidarietà.
Poi le nuove generazioni non vivono direttamente le arti di oggi, eppure vengono drogati di immagini. Ma l’arte ha un tempo che non è tecnologico è piuttosto il tempo dilatato della tecnè, del fare arte. 
Il rapporto dell’uomo con l’arte è infatti sempre immanente e imprevisto, è eversione, ci stravolge e oggi è resistenza: sì, le arti diventano la forma più pura di resistenza, contro la razionalità del sapere e del potere l’arte mette in gioco confusioni, emozioni, straniamento, conoscenza e scienza nuova; trasforma l’errore in espressione libera e quindi in libertà. 
Scrivendo di recente delle opere di Serena Gamba, per una mostra a casa Gramsci a Torino (gestita da due bravissimi galleristi che intendono l’arte come un fatto sociale e aperto e non mondano ed esclusivo) ho cercato di mettere in evidenza questo processo  nelle sue opere, che portano altrove, oltre anche la pittura verso un ignoto di cui abbiamo bisogno e ci può liberare. 
La pittura, come spesso la poesia, ha un’immediatezza che ci porta altrove, ci porta in luoghi emotivi inesplorati e ci fa abbandonare questo ordine asettico che è la realtà. 
Credo anche che in ciò ci sia qualcosa in comune con la fisica quantistica: una visione creativa, imprevedibile e possibile di ciò che accade nel mondo microscopico; nelle arti avviene qualcosa di simile, di sistematicamente imprevedibile. La parola è possibile, non reale.
Ho scritto di questo in un testo che fonde poesia, conoscenza scientifica, pittura: prendo le mosse da una bellissima raccolta poetica di un amico, si intitola Quanti (Premio Viareggio poesia 2021) e poi erro tra opere d’arte e principi di fisica teorica che sono poesia pura: ad esempio l’entanglement, la relazione e l’influenza reciproca che due elettroni instaurano tra loro anche a distanza di migliaia di kilometri, credo che sia una delle forme più potenti di amore nella natura, nel senso di capacità di sentire gli altri a distanze siderali. 


SPPP: Hai progetti che vorresti realizzare, che non hai ancora realizzato o che invece stai realizzando, di cui vorresti parlare?

RV: Molti, troppi, ne realizzerò solo una parte ma mi piace sentire che sono tanti: un libro dedicato alla storia dell’errore (grammaticale, artistico, umano etc.); ho anche in cantiere una raccolta di poesie che si intitola Poesie ridicole: stanno intanto uscendo alcuni testi su rivista (“l’Immaginazione” e “Nuovi Argomenti”, riviste resistenti!). Ma non so quando la finirò, si aggiungono quasi da soli testi, in maniera imprevedibile, ad esempio l’ultimo è ispirato alla mostra di Baj a Milano:

 

Baj mi incanto di fronte ai tuoi guai
il male militare lo deridi
e gridi libertà o niente
per il tuo Pinelli che da quella finestra 
vola ancora non cade sorvola ora
su questa italia pompa, di bomba,
moribonda nera.

E poi…sto organizzando una residenza d’artista in una Yurta, a Otranto, dove vivo: quella tenda è un luogo magico e lì, da solo e con amici e con l’arte ci rifuggiamo, tramiamo. Nulla di serio, che sia ben chiaro, tutto di ridicolo.
Del romanzo Umiliati che hai citato prima, sto provando a realizzare una versione teatrale.
Cerco anche di concludere il mio terzo romanzetto Amazzoni. Storie di donne che dicono no. Un viaggio nella femminilità più forte e libera, repressa dalla storia: sono state trovate tracce di popolazioni vissute tra il 2000 e il 1000 avanti Cristo in cui la donna era libera e guerriera. Le Amazzoni sono esistite veramente, la cultura patriarcale della Grecia antica le ha eliminate e trasformate in miti insidiosi… nel romanzo tornano tra noi.
Fa parte della trilogia che ho al margine della mia mente: Umiliati dedicato agli uomini di oggi, Amazzoni dedicato alla femminilità come forma di rivoluzione, infine i figli: il terzo romanzo parlerà di come i genitori possono annientare i figli, e viceversa: Maledetti padri.
E per esagerare: vorrei dare voce alle donne del Rinascimento, attraverso gli epistolari del tempo, nascosti negli archivi: con l’aiuto di un’amica attrice vorrei organizzare una lettura pubblica: in quel periodo le donne hanno potuto, per la prima volta, scrivere, scrivere anche di sé. E la loro scrittura, rubata, senza grammatica, intrisa di vita merita di essere ascoltata. 
Quindi, un sacco di idee e iniziative di un inconcludente, di un principiante, do princio, inizio avvio e poi mi perdo. E non sai quanto è prezioso disperdere, bighellonare, procrastinare, tutte cose che i calcolatori non sanno fare.